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TESTI ITALIANO

GIACOMO LEOPARDI

Lo Zibaldone

Lo Zibaldone di pensieri è un'opera di Giacomo Leopardi composta tra il 1817 e il 1832, che consiste in una raccolta di appunti, pensieri, riflessioni e considerazioni su svariati argomenti, dalla filosofia alla letteratura, dalla scienza alla politica, è considerato uno dei capolavori della letteratura italiana e rappresenta un monumento dell'erosione dell'ideale romantico nel pensiero leopardiano. L'opera è stata pubblicata postuma nel 1898.

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[165] Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt’uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch’è ingenita o congenita coll’esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll’esistenza, e quindi l’uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch’è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l’infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l’anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l’estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch’ella desidera illimitata. Veniamo alle conseguenze. Se tu desideri un cavallo, ti pare di desiderarlo come cavallo, e come un tal piacere, ma in fatti lo desideri come piacere astratto e illimitato. Quando giungi a possedere il cavallo, [166] trovi un piacere necessariamente circoscritto, e senti un vuoto nell’anima, perchè quel desiderio che tu avevi effettivamente, non resta pago. Se anche fosse possibile che restasse pago per estensione, non potrebbe per durata, perchè la natura delle cose porta ancora che niente sia eterno. E posto che quella material cagione che ti ha dato un tal piacere una volta, ti resti sempre (p.e. tu hai desiderato la ricchezza, l’hai ottenuta, e per sempre), resterebbe materialmente, ma non più come cagione neppure di un tal piacere, perchè questa è un’altra proprietà delle cose, che tutto si logori, e tutte le impressioni appoco a poco svaniscano, e che l’assuefazione, come toglie il dolore, così spenga il piacere. Aggiungete che quando anche un piacere provato una volta ti durasse tutta la vita, non perciò l’animo sarebbe pago, perchè il suo desiderio è anche infinito per estensione, così che quel tal piacere quando uguagliasse la durata di questo desiderio, non potendo uguagliarne l’estensione, il desiderio resterebbe sempre, o di piaceri sempre nuovi, come accade in fatti, o di un piacere che riempiesse tutta l’anima. Quindi potrete facilmente concepire come il piacere sia cosa vanissima sempre, del che ci facciamo tanta maraviglia, come se ciò venisse da una sua natura particolare, quando il dolore la noia ec. non hanno questa qualità. Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perchè non si tratta di una piccola ma di una somma [167] inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perchè l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.

Cantico del gallo silvestre (Le Operette morali)

Composto a Recanati tra il 10 e il 16 novembre 1824 il Cantico del gallo silvestre compare fin dalla prima edizione delle Operette morali, dove è collocato in penultima posizione. Il carattere dell’operetta, infatti, ben s’addice a un’ideale conclusione delle prose leopardiane, grazie al senso di inesorabilità che trasmette al lettore nell’indicare il nulla verso il quale si dirige l’esistenza umana. L’idea di fondo è quella del “manoscritto ritrovato”, ossia un testo perduto e di assai difficile comprensione che riporta il vero e proprio cantico del gallo silvestre. Nella finzione dell’operetta, questo testo viene tradotto dalle antiche lingue orientali, ma – come spiegano le righe iniziali – la figura di questo gallo e le sue caratteristiche restano immancabilmente avvolte nel mistero. Chiaro invece è il messaggio che comunica ai «mortali»: la vita è un progredire costante e implacabile verso la morte.

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Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in su la terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo. Questo gallo gigante, oltre a varie particolaritá che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato Scir detarnegòl bara letzafra, cioè «Cantico mattutino del gallo silvestre»: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare piú d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l’oda cantare, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto, per farlo piú fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica.

Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrá essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale, il qual testo corrisponde in questa parte all’uso delle lingue, e massime dei poeti, d’oriente.

Su, mortali, destatevi. Il dí rinasce: torna la veritá in sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.

Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è piú desideroso che mai di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio; a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicitá sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’una e l’altra, insino alla vigilia del di seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina.

Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicitá, o piú di miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli, da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu dí presente o vedesti mai la felicitá dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde al tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtú vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dí e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?

Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrá tempo che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterá dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita che, a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.

Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicitá; perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono; e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.

A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il piú comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in [p. 161 modifica]quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla gioconditá, o sono disposti piú che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga.

Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dí passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori, e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovinezza: questo per lo piú racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventú della vita intera, cosí quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dí si riduce per loro in etá provetta.

Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sí piccolo tempo, che quando il vivente a piú segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che giá scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sí manifestamente, e di sí gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celeritá mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché, se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno riacquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dí, e finalmente si estinguono; cosí l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrá che esso universo, e la natura medesima, sará spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre etá, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamitá delle cose create, non rimarrá pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empiranno lo spazio immenso. Cosí questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerá e perderassi

Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere (Le Operette morali)

"Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere" è un componimento poetico di Giacomo Leopardi pubblicato nel 1824. Il dialogo immaginario tra il venditore ambulante e il passeggere affronta il tema dell'illusione e della fugacità della felicità terrena, esprimendo l'idea che la vita umana sia essenzialmente destinata al dolore e alla sofferenza. Il componimento rappresenta uno dei più celebri esempi della poetica leopardiana e si distingue per l'uso di un linguaggio semplice e diretto, ma altamente evocativo.

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Venditore

Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?

Passeggere

Almanacchi per l’anno nuovo?

Venditore

Si signore.

Passeggere

Credete che sarà felice quest’anno nuovo?

Venditore

Oh illustrissimo si, certo.

Passeggere

Come quest’anno passato?

Venditore

Più più assai.

Passeggere

Come quello di là?

Venditore

Più più, illustrissimo.

Passeggere

Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi?

Venditore

Signor no, non mi piacerebbe.

Passeggere

Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi?

Venditore

Saranno vent’anni, illustrissimo.

Passeggere

A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo?

Venditore

Io? non saprei.

Passeggere

Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice?

Venditore

No in verità, illustrissimo.

Passeggere

E pure la vita è una cosa bella. Non è vero?

Venditore

Cotesto si sa.

Passeggere

Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste?

Venditore

Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse.

Passeggere

Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati?

Venditore

Cotesto non vorrei.

Passeggere

Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro?

Venditore

Lo credo cotesto.

Passeggere

Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo?

Venditore

Signor no davvero, non tornerei.

Passeggere

Oh che vita vorreste voi dunque?

Venditore

Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti.

Passeggere

Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo?

Venditore

Appunto.

Passeggere

Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero?

Venditore

Speriamo.

Passeggere

Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete.

Venditore

Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi.

Passeggere

Ecco trenta soldi.

Venditore

Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

L’INFINITO (Canti)

"L'Infinito" è una poesia scritta da Giacomo Leopardi nel 1819. Il componimento esprime la condizione umana dell'incapacità di comprendere l'infinito dell'universo e la sproporzione tra la grandezza del cosmo e la piccolezza dell'uomo. La poesia è caratterizzata da un linguaggio semplice e diretto, ma al tempo stesso evocativo, che si ispira alla filosofia della natura e all'idealismo romantico. "L'Infinito" è una delle opere più celebri e rappresentative della produzione leopardiana e costituisce un esempio della sua poetica, incentrata sul tema del pessimismo cosmico e della consapevolezza della transitorietà e della vanità della vita umana.

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Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

e questa siepe, che da tanta parte

dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.

Ma, sedendo e mirando, interminati

spazi di lá da quella, e sovrumani5

silenzi, e profondissima quiete

io nel pensier mi fingo; ove per poco

il cor non si spaura. E come il vento

odo stormir tra queste piante, io quello

infinito silenzio a questa voce10

vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

e le morte stagioni, e la presente

e viva, e il suon di lei. Cosí tra questa

immensitá s’annega il pensier mio;

e il naufragar m’è dolce in questo mare.

La sera del dì di festa (Canti)

"La sera del dì di festa" è una poesia scritta da Giacomo Leopardi nel 1828. Il componimento è caratterizzato da un tono nostalgico e malinconico e descrive l'atmosfera notturna e silenziosa del paesaggio collinare marchigiano. La poesia è suddivisa in tre strofe che si alternano tra descrizioni naturalistiche e riflessioni filosofiche sulla condizione umana e sulla precarietà della felicità terrena. "La sera del dì di festa" rappresenta uno dei capolavori della produzione leopardiana e si distingue per l'uso di un linguaggio semplice e diretto, ma altamente evocativo, capace di evocare immagini e sensazioni di grande intensità.

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Dolce e chiara è la notte e senza vento,

e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

posa la luna, e di lontan rivela

serena ogni montagna. O donna mia,

giá tace ogni sentiero, e pei balconi

rara traluce la notturna lampa:

tu dormi, ché t’accolse agevol sonno

nelle tue chete stanze; e non ti morde

cura nessuna; e giá non sai né pensi

quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sí benigno

appare in vista, a salutar m’affaccio,

e l’antica natura onnipossente,

che mi fece all’affanno. — A te la speme

nego — mi disse, — anche la speme; e d’altro

non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. —

Questo dí fu solenne: or da’ trastulli

prendi riposo; e forse ti rimembra

in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

piacquero a te: non io, non giá ch’io speri,

al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo

quanto a viver mi resti, e qui per terra

mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi

in cosí verde etate! Ahi! per la via

odo non lunge il solitario canto

dell’artigian, che riede a tarda notte,

dopo i sollazzi, al suo povero ostello;

e fieramente mi si stringe il core,

a pensar come tutto al mondo passa,

e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

il dí festivo, ed al festivo il giorno

volgar succede, e se ne porta il tempo

ogni umano accidente. Or dov’è il suono

di que’ popoli antichi? or dov’è il grido

de’ nostri avi famosi, e il grande impero

di quella Roma, e l’armi, e il fragorío

che n’andò per la terra e l’oceáno?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

il mondo, e piú di lor non si ragiona.

Nella mia prima etá, quando s’aspetta

bramosamente il dí festivo, or poscia

ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,

premea le piume; ed alla tarda notte

un canto, che s’udía per li sentieri

lontanando morire a poco a poco,

giá similmente mi stringeva il core.

La quiete dopo la tempesta (Canti)

"La quiete dopo la tempesta" è una poesia scritta da Giacomo Leopardi nel 1828. Il componimento è caratterizzato da un tono sereno e pacifico e descrive l'atmosfera rasserenante che segue il passaggio di una tempesta. La poesia è divisa in tre strofe, ognuna delle quali rappresenta un momento diverso della narrazione: la tempesta, la fine della tempesta e la quiete che segue. L'opera rappresenta uno dei momenti più alti della produzione leopardiana e si distingue per l'uso di un linguaggio evocativo e intenso, capace di trasmettere l'effetto della natura sulla sensibilità dell'io lirico.

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Passata è la tempesta:

odo augelli far festa, e la gallina,

tornata in su la via,

che ripete il suo verso. Ecco il sereno

rompe lá da ponente, alla montagna:

sgombrasi la campagna,

e chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra, in ogni lato

risorge il romorio,

torna il lavoro usato.

L’artigiano a mirar l’umido cielo,

con l’opra in man, cantando,

fassi in su l’uscio; a prova

vien fuor la femminetta a côr dell’acqua

della novella piova;

e l’erbaiuol rinnova

di sentiero in sentiero

il grido giornaliero.

Ecco il sol che ritorna, ecco sorride

per li poggi e le ville. Apre i balconi,

apre terrazzi e logge la famiglia:

e, dalla via corrente, odi lontano

tintinnio di sonagli; il carro stride

del passeggier che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.

Sí dolce, sí gradita

quand’è, com’or, la vita?

Quando con tanto amore

l’uomo a’ suoi studi intende?

o torna all’opre? o cosa nova imprende?

quando de’ mali suoi men si ricorda?

Piacer figlio d’affanno;

gioia vana, ch’è frutto

del passato timore, onde si scosse

e paventò la morte

chi la vita abborria;

onde in lungo tormento,

fredde, tacite, smorte,

sudâr le genti e palpitâr, vedendo

mossi alle nostre offese

folgori, nembi e vento.

O natura cortese,

son questi i doni tuoi,

questi i diletti sono

che tu porgi ai mortali. Uscir di pena

è diletto fra noi.

Pene tu spargi a larga mano; il duolo

spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto

che per mostro e miracolo talvolta

nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana

prole cara agli eterni! assai felice

se respirar ti lice

d’alcun dolor; beata

se te d’ogni dolor morte risana.

Il sabato del villaggio (Canti)

"Il sabato del villaggio" è una poesia di Giacomo Leopardi scritta nel 1829. Il componimento descrive la vita del villaggio in un tipico giorno di mercato, il sabato, e si concentra sulla figura di una giovane donna, Silvia, che suscita l'attenzione e l'ammirazione dei giovani del paese. La poesia si articola in quattro strofe, ciascuna delle quali rappresenta una fase diversa della giornata, dalla mattina al tramonto. Leopardi usa un linguaggio semplice e diretto, tipico della poesia popolare, e crea un'atmosfera di serenità e vitalità. Tuttavia, l'io lirico si sofferma sulla transitorietà della bellezza e della felicità umana, suggerendo un senso di malinconia e nostalgia per ciò che non può durare.

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La donzelletta vien dalla campagna,

In sul calar del sole,

Col suo fascio dell’erba; e reca in mano

Un mazzolin di rose e di vïole,

Onde, siccome suole,

Ornare ella si appresta

Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.

Siede con le vicine

Sulla scala a filar la vecchierella,

Incontro là dove si perde il giorno;

E novellando vien del suo buon tempo,

Quando ai dì della festa ella si ornava,

Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei

Ch’ebbe compagni dell’età più bella.

Già tutta l’aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre

Già da’ colli e da’ tetti,

Al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segno

Della festa che viene;

Ed a quel suon diresti

Che il cor si riconforta,

I fanciulli gridando

Sulla piazzuola in frotta,

E quà e là saltando,

Fanno un lieto romore:

E intanto riede alla sua parca mensa,

Fischiando, il zappatore,

E seco pensa al dì del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face

E tutto l’altro tace,

Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che veglia

Nella chiusa bottega alla lucerna,

E s’affretta, e s’adopra

Di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia:

Diman tristezza e noia

Recheran l’ore, ed al travaglio usato

Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,

Cotesta età fiorita

È come un giorno d’allegrezza pieno,

Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita.

Godi, fanciullo mio; stato soave,

Stagion lieta è cotesta.

Altro dirti non vo’; ma la tua festa

Ch’anco tardi a venir non ti sia grave.

La ginestra, o il fiore del deserto (v. 1-50) (Canti)

"La ginestra, o il fiore del deserto" è un poema di Giacomo Leopardi scritto nel 1836 e pubblicato postumo. I primi cinquanta versi del poema presentano una descrizione dettagliata della pianta della ginestra e del suo habitat naturale. La ginestra, che cresce in terreni aridi e desertici, diventa per Leopardi il simbolo della natura selvaggia e incontaminata che resiste alla conquista e alla civilizzazione dell'uomo. Il componimento si caratterizza per l'uso di un linguaggio scultoreo e musicale, capace di creare immagini suggestive e di trasmettere al lettore l'impressione di un paesaggio arido e solitario.

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Qui su l’arida schiena

del formidabil monte

sterminator Vesevo,

la qual null’altro allegra arbor né fiore,

5tuoi cespi solitari intorno spargi,

odorata ginestra,

contenta dei deserti. Anco ti vidi

de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade

che cingon la cittade

la qual fu donna de’ mortali un tempo,

e del perduto impero

par che col grave e taciturno aspetto

faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

lochi e dal mondo abbandonati amante

e d’afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

di ceneri infeconde, e ricoperti

dell’impietrata lava,

che sotto i passi al peregrin risona;

dove s’annida e si contorce al sole

la serpe, e dove al noto

cavernoso covil torna il coniglio;

fûr liete ville e cólti,

e biondeggiâr di spiche, e risonâro

di muggito d’armenti;

fûr giardini e palagi,

agli ozi de’ potenti

gradito ospizio; e fûr cittá famose,

30che coi torrenti suoi l’altèro monte

dall’ignea bocca fulminando oppresse

con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

una ruina involve,

ove tu siedi, o fior gentile, e quasi

i danni altrui commiserando, al cielo

di dolcissimo odor mandi un profumo,

che il deserto consola. A queste piagge

venga colui che d’esaltar con lode

il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

è il gener nostro in cura

all’amante natura. E la possanza

qui con giusta misura

anco estimar potrá dell’uman seme,

cui la dura nutrice, ov’ei men teme,

con lieve moto in un momento annulla

in parte, e può con moti

poco men lievi ancor subitamente

annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

son dell’umana gente

«Le magnifiche sorti e progressive».

GIOVANNI VERGA

Il ciclo dei «Vinti»

Il ciclo dei Vinti è il titolo dato ai cinque romanzi (MalavogliaMastro don GesualdoDuchessa di LeyraOnorevole ScipioniUomo di lusso) che, nelle intenzioni di Verga, avrebbero dovuto avere come tema comune la lotta per l’esistenza, mettendo così in risalto le tragiche conseguenze della fiumana del progresso sulle classi sociali più deboli. Nella Prefazione ai Malavoglia lo scrittore spiega le caratteristiche di ogni singolo romanzo all’interno del ciclo a cui pensa di dare il nome Marea e che in seguito chiamerà I Vinti. Verga porterà a termine solo I Malavoglia, Mastro don Gesualdo e il primo capitolo della Duchessa di Leyra, poi interromperà il suo lavoro, sia perché distratto da gravosi impegni familiari, sia perché aveva esaurito la propria vena creativa.

Nedda

"Nedda, bozzetto siciliano" è una novella di Giovanni Verga, pubblicata nel 1874 e inserita nella raccolta "Vita dei campi". Il racconto racconta la storia di Nedda, una giovane donna che vive in una comunità rurale in Sicilia e che cerca di liberarsi dalle restrizioni sociali che limitano la sua libertà. Nedda intrattiene una relazione clandestina con un giovane pastore, ma è costretta a sposare un uomo ricco e anziano per motivi di interesse. La novella si caratterizza per l'uso di un linguaggio semplice e diretto, che si avvicina alla lingua parlata dei contadini siciliani, e per la rappresentazione realistica e dettagliata della vita contadina dell'epoca. La figura di Nedda rappresenta la lotta delle donne per la libertà e l'autonomia in una società patriarcale e arretrata.

L’amante di Gramigna

"L'amante di Gramigna" è un racconto di Giovanni Verga pubblicato nel 1880 e fa parte della raccolta "Novelle rusticane". La storia racconta la relazione tra una giovane contadina, Marianna, e un bandito, Gramigna, che vive nascosto nelle campagne siciliane. La relazione tra i due è complicata dall'opposizione della comunità contadina, che disapprova l'immoralità del comportamento di Marianna, e dalla difficoltà di fuggire dalla giustizia. Il racconto si caratterizza per l'uso del dialetto siciliano e per la rappresentazione realistica della vita contadina dell'epoca, e mette in luce le contraddizioni e le difficoltà di una società arretrata e povera. La figura di Marianna rappresenta la lotta delle donne per l'indipendenza e l'autonomia in una società patriarcale, mentre quella di Gramigna rappresenta il dramma dell'emarginazione sociale e della lotta per la sopravvivenza.

Rosso Malpelo

Malpelo è un ragazzino con i capelli rossi. All'epoca in cui è ambientata la novella di Verga, per via delle superstizioni popolari, i capelli rossi erano indice di malizia e per questo motivo il ragazzo viene trattato male dai concittadini. Preferisce, quindi, starsene per conto suo. Neanche la madre lo ama molto: non ha mai accettato il fatto che abbia deciso di andare a lavorare nella cava e non si fida di lui, pensa che rubi i soldi dello stipendio che porta a casa. Pure la sorella lo accoglie sempre picchiandolo.

L'unico con cui sembra andare d'accordo è il padre, Mastro Misciu, il cui soprannome è Bestia. Anche il padre lavora alla cava ed è l'unico ad avergli dimostrato un po' di affetto. Per questo motivo quando gli altri operai cercano di prendere in giro il padre, Malpelo lo difende sempre. Un giorno Mastro Misciu, su ordine del padrone, accetta di abbattere un vecchio pilastro inutile: il lavoro è pericoloso, gli altri operai si sono rifiutati, ma Mastro Misciu ha bisogno di soldi. Prevedibilmente il pilastro cade addosso all'uomo e Malpelo, disperato, comincia a scavare a mani nude sotto le macerie, si spezza le unghie, chiede aiuto, ma quando gli altri arrivano il padre è ormai morto.

Se prima Malpelo era scorbutico e ringhioso, dopo la morte del padre il suo carattere peggiora. Inoltre comincia a lavorare proprio nella galleria dove il padre era morto.

Un giorno alla cava arriva a lavorare Ranocchio, un ragazzino che si è lussato il femore e che non può più fare l'operaio a causa della sua zoppia. Malpelo lo prende subito di mira e cerca di farlo reagire a suon di insulti e botte. Ranocchio non si difende e Malpelo lo picchia sempre di più: vuole che Ranocchio impari a reagire e che capisca che la vita non è facile, bensì una sfida continua.

In realtà Malpelo si è affezionato a Ranocchio e spesso gli dà parte del suo cibo e lo aiuta nei lavori più pesanti. Finalmente viene recuperato il cadavere di Mastro Misciu e Malpelo tiene come un tesoro i pochi oggetti posseduti dal padre. Purtroppo ben presto anche Ranocchio muore, di tisi, Malpelo è sempre più solo (la madre si è risposata e non vuole avere a che fare con lui e anche la sorella si è trasferita in un altro quartiere) e finisce per scomparire nella cava dopo che gli era stato assegnato il compito di esplorare una galleria sconosciuta.

Nessuno avrebbe mai accettato un compito così pericoloso, ma Malpelo ormai non ha più niente da perdere: prende pane, vino, attrezzi e vestiti del padre ed entra nella galleria per non uscirne mai più. La sua unica vendetta da morto è aver instillato il terrore negli altri operai che hanno sempre paura di vederlo spuntare fuori all'improvviso con i suoi capelli rossi e i suoi occhiacci.

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Malpelo si chiamava così perchè aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perchè era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicchè tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo.

Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio, di quei soldi; nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni.

Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vederselo davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorchè se lo trovavano a tiro.

Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finchè il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava, fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e sporco di rena rossa, che la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perchè mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava.

Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone, per 35 o 40 carra di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni, e ne avanzava ancora per la mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare a questo modo dal padrone; perciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: — Va là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre.

Invece nemmen suo padre ci morì, nel suo letto, tuttochè fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato, aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avrebbe tolto per venti onze, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo nelle cave, e se si sta a badare a tutte le sciocchezze che si dicono, è meglio andare a fare l’avvocato.

Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’avemaria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del padrone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: — Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata! — e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto — il cottimante!

Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e girava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco, come se avesse il mal di pancia, e dicesse ohi! ohi! anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco del vino. Il padre, che gli voleva bene, poveretto, andava dicendogli: «Tirati indietro!» oppure: «Sta attento! Sta attento se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa.» Tutt’a un tratto non disse più nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorchè si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense.

Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i lavori della cava, ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona con un trono, perch’era gran dilettante. Rossi rappresentava l’Amleto, e c’era un bellissimo teatro. Sulla porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di Monserrato, che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran disgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento, ma passarono altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo ci voleva una settimana.

Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tutta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e dovea prendere il doppio di calce. Ce n’era da riempire delle carra per delle settimane. Il bell’affare di mastro Bestia!

L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia; e gli altri minatori si strinsero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran chiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla di umano, e strillava: — Scavate! scavate qui! presto! — To’! — disse lo sciancato — È Malpelo! — Da dove è venuto fuori Malpelo? — Se tu non fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata, no! — Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio duro a mo’ dei gatti. Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nella rena, dentro la buca, sicchè nessuno s’era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e tale schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza.

Però infine tornò alla cava dopo qualche giorno, quando sua madre piagnuccolando ve lo condusse per mano; giacchè, alle volte il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zappava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralunati, e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli susurrava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perchè i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: — Così creperai più presto!

Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e lavorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sapendo che era malpelo, ei si acconciava ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri, o che un asino si rompeva una gamba, o che crollava un tratto di galleria, si sapeva sempre che era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrattamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perchè egli non faceva così!» E una volta che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui! per trentacinque tarì!» E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!»

Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta da un ponte s’era lussato il femore, e non poteva far più il manovale. Il poveretto, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sembrava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio com’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per prendersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano.

Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, egli diceva: ― To’! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello!

O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca e dalle narici, ― Così, come ti cuocerà il dolore delle busse, imparerai a darne anche tu! ― Quando cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva puntare gli zoccoli, rifinito, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: ― L’asino va picchiato, perchè non può picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe la carne a morsi.

Oppure: ― Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più forte che puoi; così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne avrai tanti di meno addosso.

Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli ah! ah! che aveva suo padre. ― La rena è traditora, diceva a Ranocchio sottovoce; somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Bestia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perchè era più forte di lui.

Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio piagnucolava a guisa di una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso, e lo sgridava: ― Taci, pulcino! ― e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, dicendo con un certo orgoglio: ― Lasciami fare; io sono più forte di te. ― Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: ― Io ci sono avvezzo.

Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di badile, o di cinghia da basto, a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiunare era avvezzo, allorchè il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone; ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustificava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spaventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: ― A che giova? Sono malpelo! ― e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene faceva mai.

Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese, chè avrebbe fatto scappare il suo damo se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone come un cane malato. Adunque, la domenica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare nel cortile, ei sembrava non avesse altro spasso che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano.

La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano affamati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, brutto e cencioso e sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto apposta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gatto che ammiccavano se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo d’ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finchè vivono. Sono asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portarli alla Plaja, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più; se veniva fuori dalla cava il sabato sera, era perchè aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana.

Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavorare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena ― o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tutto il giorno per le belle strade di campagna ― o meglio ancora, avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo ai verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era stato il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, narrava a Ranocchio del pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si sarebbe trovato il cadavere del babbo, il quale doveva avere dei calzoni di fustagno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sempre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sotterra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora; senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente.

Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di mastro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si poterono trovare nè i calzoni quasi nuovi, nè il rimanente di mastro Misciu; sebbene i pratici affermarono che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava curiosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra.

Dacchè poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più darvi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perchè il pilastro gli si era piegato in arco addosso, e l’aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tutt’ora che mastro Bestia avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lacerate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo! — ripeteva lo sciancato — ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là». Però non dissero nulla al ragazzo, per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo.

Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sbarazzava dalla rena caduta e dagli asini morti, chè stavolta oltre al lezzo del carcame, c’era che il carcame era di carne battezzata; e la vedova rimpiccolì i calzoni e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacchè rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto.

Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimugginando chi sa quali idee in quel cervellaccio.

Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il piccone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pagati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li aveva resi così lisci e lucenti nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni.

In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. ― Così si fa, brontolava Malpelo; gli arnesi che non servono più, si buttano lontano. ― Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come comparivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando sui greppi dirimpetto, ma il Rosso non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. ― Vedi quella cagna nera, gli diceva, che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perchè ha più fame degli altri. Gliele vedi quelle costole! Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli laceravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche, e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo battevano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio.

La sciara si stendeva malinconica e deserta, fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o un uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva.

― Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà.

Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di luna, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vagamente ― allora la sciara sembra più brulla e desolata. ― Per noi che siamo fatti per vivere sotterra, pensava Malpelo, ci dovrebbe essere buio sempre e dappertutto. ― La civetta strideva sulla sciara, e ramingava di qua e di là; ei pensava: ― Anche la civetta sente i morti che son qua sotterra, e si dispera perchè non può andare a trovarli.

Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava, perchè chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asino grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate.

― Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti ― gli diceva ― e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sotterra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, nè dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno volentieri in compagnia dei morti.

Ranocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi te l’ha detto?» domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma.

Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perchè, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella».

E dopo averci pensato un po’.

«Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trovato i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io».

Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le corbe, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ragazzo non ne avrebbe fatto osso duro a quel mestiere, e che per lavorare in una miniera, senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva orgoglioso di esserci nato, e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsana, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva animo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta, nel picchiarlo sul dorso, Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue, allora Malpelo spaventato si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli poi gran male, così come l’aveva battuto, e a dimostrarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che l’operaio se ne fu andato, aggiunse: ― Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha picchiato più forte di me, ti giuro!

Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la febbre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi della paga della settimana, per comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo della febbre, nè con sacchi, nè coprendolo di paglia, nè mettendolo dinanzi alla fiammata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui ginocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto, e allorchè lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorchè ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, egli borbottava: ― È meglio che tu crepi presto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi! ― E il padrone diceva che Malpelo era capace di schiacciargli il capo, a quel ragazzo, e bisognava sorvegliarlo.

Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perchè allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il povero Ranocchio era più di là che di qua; sua madre piangeva e si disperava come se il figliuolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana.

Cotesto non arrivava a comprenderlo Malpelo, e domandò a Ranocchio perchè sua madre strillasse a quel modo, mentre che da due mesi ei non guadagnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava retta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare che la madre di Ranocchio strillasse a quel modo perchè il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano mai. Egli invece era stato sano e robusto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perchè non aveva mai avuto timore di perderlo.

Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la civetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sarebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poichè anche la madre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali; anche la sorella si era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla.

Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli anni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là dentro e guardati a vista.

Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva provata la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo dichiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si contentava di stare in galera tutta la vita, chè la prigione, in confronto, era un paradiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. ― Allora perchè tutti quelli che lavorano nella cava non si fanno mettere in prigione? ― domandò Malpelo.

― Perchè non sono malpelo come te! ― rispose lo sciancato. ― Ma non temere, che tu ci andrai e ci lascerai le ossa.

Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo diverso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe risparmiata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicchè nessun padre di famiglia voleva avventurarcisi, nè avrebbe permesso che ci si arrischiasse il sangue suo per tutto l’oro del mondo.

Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era rimaritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre appese al chiodo; perciò gli commettevano sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne avevano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: nè più si seppe nulla di lui.

Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, chè hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi.

La roba

La tecnica narrativa che apre la novella è quella della narrazione indiretta per presentare la ricchezza del personaggio principale: un viandante che attraversa la pianura di Catania, lungo la strada che costeggia il Lago Lentini, contempla stupito la vastità delle proprietà di Mazzarò.

Poi lo stesso Mazzarò ci viene descritto seguendo un profilo sia fisico (basso e con una grossa pancia) che psicologico, e quest’ultimo viene davvero ben delineato grazie al racconto di come l’uomo abbia accumulato tanta "roba". Mazzarò è un uomo che ha sacrificato tutto nella sua vita, con fatica, perseveranza e ostinazione per accumulare più beni materiali possibili, ma è incapace di godere dei benefici che possono scaturire da tanta ricchezza. Non ha famiglia, vive in condizioni di povertà per non sprecare le sue ricchezze, lavora come un mulo nei campi. Non ha vizi, non ha amici. Ha allontanato tutti nella sua vita, per paura che potessero sottrargli la sua roba.

La sua ribalta da povero bracciante sfruttato e sottopagato a proprietario di tutti i beni che sottrae a quello che una volta era il suo padrone è un’ascesa sociale sterile. La sua scalata riesce grazie al sacrificio e alla furbizia, ma una volta guadagnata una posizione migliore, l’uomo sembra mandare in fumo ogni possibilità di crescita personale. Sleale nei confronti di chi lavora per lui e ossessionato dall’accumulo della ricchezza, Mazzarò vive nel terrore della morte: che fine faranno i sacrifici e i traguardi di una vita intera quando morirà? Durante la sua vecchiaia Mazzarò si rende conto di quanto vuota e povera sia, in senso metaforico, la sua vita, e dunque il suo attaccamento ai beni materiali diventa, se possibile, ancora più tossico. Non avendo eredi né conoscenti, va in fumo anche la possibilità di trasferire i suoi beni a qualcuno. Il pensiero di non poter portare con sé i suoi beni nella vita ultraterrena lo fa addirittura impazzire e il testo si conclude con una scena pietosa e indimenticabile: lui che vaga nei campi, accecato dalla follia, distruggendo raccolti e colpendo animali e gridando "Roba mia, vientene con me!”

Mastro-don Gesualdo

L’opera, piuttosto complessa e caratterizzata da differenti registri linguistici, si divide in quattro parti per un totale di 21 capitoli. La vicenda è ambientata in parte a Vizzini, paese della Sicilia che è anche paese natale dell’autore, e in parte a Palermo.

Protagonista del romanzo è Gesualdo Motta, muratore di umili origini che è riuscito, lottando con tutte le proprie forze, a elevare il proprio stato sociale diventando proprietario terriero e potendo dunque aggiungere il “Don” al proprio nome.

La prima parte, che narra l’ascesa sociale del protagonista fino al matrimonio con la nobile donna Bianca Trao, si apre con la scena di un incendio notturno nella villa dei Trao: “Dal palazzo dei Trao, al di sopra del cornicione sdentato, si vedevano salire infatti, nell’alba che cominciava a schiarire, globi di fumo denso, a ondate, sparsi di faville. E pioveva dall’alto un riverbero rossastro, che accendeva le facce ansiose dei vicini raccolti dinanzi al portone sconquassato, col naso in aria”.

A causa dell’incendio, la giovane Bianca si trova bloccata nella propria stanza insieme al cugino e amante Ninì Rubiera: la scoperta della relazione clandestina è naturalmente un oltraggio per l’onore della famiglia Trao. Si cerca dunque di ricorrere al matrimonio riparatore, ma la madre di Ninì vi si oppone in quanto Bianca, benché nobile, è priva di dote.

L’unica soluzione sembra essere quella di dare in sposa Bianca a Gesualdo Motta che, benché abbia umili origini, si è però creato una certa ricchezza costruendo mulini. Anche se osteggiato da tutti, il matrimonio viene celebrato e permette a Bianca di salvare l’onore e a Gesualdo di cercare di innalzarsi a livello delle aristocratiche e potenti famiglie del paese. Queste, tuttavia, non desiderano accoglierlo tra i propri membri, per la sua origine borghese.

Ed è nella seconda parte del romanzo che Don Gesualdo arriverà a trionfare sulla nobiltà: lavorando duramente strappa, vincendo un’asta comunale, le terre ai nobili, diventando così il più ricco del paese.

Nel frattempo il fratello di Bianca, Don Diego Trao, muore di tisi, mentre Bianca dà alla luce una bambina, Isabella, che, si sospetta, potrebbe essere figlia di Ninì Rubiera.

Quest’ultimo, intanto, si innamora di un’attrice, Aglae, giunta a Vizzini con la propria compagnia teatrale. Per conquistarla il ragazzo si indebita proprio con Don Gesualdo, suscitando l’ira della baronessa sua madre che minaccia di diseredarlo. La donna viene però colpita da un colpo apoplettico che la rende paralitica.

Nella terza parte del racconto protagonista è invece Isabella, la figlia di Gesualdo. Fin dall’età di cinque anni la ragazza era stata mandata a studiare nel Collegio di Maria. Don Gesualdo, “adesso che aveva delle pietre al sole, e marciava da pari a pari coi meglio del paese, così voleva che marciasse la sua figliuola: imparare le belle maniere, leggere e scrivere, ricamare, il latino dell’uffizio anche, e ogni cosa come la figlia di un barone.” In seguito la ragazza viene mandata in un altro Collegio, altrettanto elitario, a Palermo, ed è qui che si trova quando scoppia in tutta la regione l’epidemia di colera.

Per sfuggire al contagio, la famiglia di Don Gesualdo, Isabella compresa, decide di spostarsi nel podere Mangalavite, “un gran casamento annidato in fondo alla valletta”. Qui la ragazza, che ha ora 16 anni, si trova per la prima volta a stretto contatto con il padre, di cui finisce per detestare la rozzezza dei modi. Si innamora di un cugino, Corrado La Gurna, ma non appena Don Gesualdo si accorge della relazione rinchiude nuovamente la ragazza in collegio.

Dato che il matrimonio con il cugino Corrado, orfano di padre e povero, è da escludere, Don Gesualdo si affanna per trovare un marito adatto per la figlia e lo identifica nel duca di Leyra, nobile di Palermo. Per acconsentire al matrimonio il Duca pretende in dote un elevato numero di terre, che diventano ancora di più quando si scopre che Isabella è incinta del figlio di Corrado. Don Gesualdo è così costretto a cedere figlia e terre e, “stretto da tutte le parti, tirato pei capelli, si lasciò aprir le vene, e mise il suo nome in lettere di scatola al contratto nuziale: Gesualdo Motta sotto la firma del genero che pigliava due righe: Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra”.

Con la cessione di queste terre ha inizio il declino di Gesualdo, che rappresenta l’argomento della quarta e ultima parte del romanzo.

I malavoglia

Al centro della storia c’è la famiglia Toscano, una famiglia di pescatori del piccolo paese siciliano di Aci Trezza soprannominata dal popolo “Malavoglia”. Il peschereccio chiamato “La Provvidenzapermette di vivere dignitosamente, anche grazie al duro lavoro del capofamiglia Padron ‘Ntoni ma una serie di disastri metterà a dura prova gli equilibri familiari trasformando ogni cosa.

«Il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole».

Innanzitutto una cattiva annata per la pesca, a cui si aggiungono la partenza per il militare del giovane ‘Ntoni (nipote del capofamiglia) e la necessità di assumere un nuovo lavoratore, la volontà della figlia maggiore Mena di sposarsi a cui fa seguito il bisogno di una dote. Per queste ragioni, Padron ‘Ntoni decide di tentare la via del commercio, ma la barca naufraga e a perdere la vita è Bastianazzo, figlio di Padron ‘Ntoni. La nave era carica di lupini comprati a credito dall’usuraio Zio Crocefisso: è l’inizio del declino per la famiglia dei Malavoglia che perde anche la Casa “del Nespolo”.

«Maruzza allora, seduta ai piedi del letto, pallida e disfatta come un cencio messo al bucato, che pareva la Madonna Addolorata, si metteva a piangere più forte, col viso nel guanciale, e padron ‘Ntoni, piegato in due, più vecchio di cent’anni, la guardava, e la guardava, scrollando il capo, e non sapeva che dire, per quella grossa spina di Bastianazzo che ci aveva in cuore, come se lo rosicasse un pescecane».

Ma le disgrazie non si arrestano. La madre viene uccisa dal colera, la nave riparata naufraga di nuovo, i membri della famiglia rimasti senza lavoro devono arrangiarsi mentre il giovane ‘Ntoni, partito per il militare, si rifiuta di tornare alla vita faticosa e decide di dedicarsi al contrabbando. Viene persino incarcerato dopo una rissa con la guardia che aveva cercato di sedurre la sorella Lia che, fugge a Catania e finisce per lavorare come prostituta. L’altro nipote, Luca, muore durante la battaglia di Lissa del 1866 e Mena, sconvolta da tutto questo, non può più sposarsi.

Non esiste più una famiglia e lo stesso Padron ‘Ntoni, ormai malato, si avvicina alla fine. Alessi, ultimo nipote, riesce a ricomprare la casa del Nespolo e tenta di ricostruire il nucleo familiare senza riuscirci: Padron ‘Ntoni muore in ospedale, mentre il giovane ‘Ntoni, uscito dal carcere, decide di abbandonare per sempre il paese natale perché ormai ha perso le proprie radici e non si riconosce più nei valori tradizionali, decidendo peranto per una partenza senza ritorno.

«Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch’ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d’imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l’alba, come l’aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c’era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava […]».

La vicenda dei Malavoglia descrive le vicende di tante famiglie dell’epoca ma anche un mondo che non è idealizzato, perché rappresentato nei suoi aspetti più reali e crudeli. Sicuramente un ruolo centrale è rivestito dalle vicende della famiglia che vive una serie di sventure fino all’epilogo. Ma in questo capolavoro si affronta anche la questione economica, il benessere che permette ai protagonisti di sopravvivere nella società e non è un caso che la barca, da cui tutti i componenti del nucleo famigliare dipendono, porti appunto il nome di “Provvidenza”.

Dorian Gray: ritratto di un dandy (cap. XI)

"Il ritratto di Dorian Gray" è un romanzo scritto dall'autore irlandese Oscar Wilde, pubblicato per la prima volta nel 1890. La trama del romanzo segue la vita del giovane e bello Dorian Gray, che viene ritratto in un quadro dall'artista Basil Hallward.

Dorian Gray rimane affascinato dal quadro e dal suo aspetto giovane e perfetto e fa un patto con il diavolo, chiedendo di invecchiare al posto suo, mentre il quadro invecchia al suo posto. Con il passare degli anni, Dorian si dedica a una vita di piaceri e degrado, lasciandosi corrompere dalla sua bellezza eterna e dall'assenza di conseguenze per i suoi atti malvagi.

Il ritratto, nel frattempo, diventa sempre più orribile, mostrando i segni del peccato e della corruzione di Dorian. Alla fine del romanzo, Dorian tenta di distruggere il quadro, ma in realtà si distrugge lui stesso, morendo invecchiato e deformato come il ritratto.

Il romanzo affronta temi come la bellezza, la vanità, la corruzione morale, la natura dell'arte e del peccato, e ha avuto un grande impatto sulla cultura popolare e sulla letteratura.

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capitolo 8-9-10

Dopo la sua orribile notte di vagabondaggio per le strade di Londra, dopo la rottura con Sibyl Vane, Dorian si sveglia il giorno dopo e si chiede se la notte precedente sia stata solo un sogno o la realtà.

Mentre cerca di dare un senso alla sera precedente pensa al ritratto e ricorda le modifiche del suo viso.

Cerca di decidere se le modifiche alla foto sono reali o solo la sua immaginazione.

Ha paura di confermare il suo sospetto sul quadro e allo stesso tempo ha paura di non farlo.

Alla fine raccoglie il suo coraggio e guarda la foto, che conferma la sua peggiore paura.

L'immagine è diversa, mostra la sua bocca con un sorriso crudele sulle labbra.

È pieno di rimorsi per il modo in cui ha trattato Sibyl, decide che vuole davvero sposarla e le scrive una lettera confessando i suoi veri sentimenti e chiedendole il suo perdono.

Prima che possa consegnare la lettera a Sibyl, Lord Henry visita Dorian, recando con se la triste notizia della morte di Sibyl che, ingerito del veleno nel suo camerino è morta all'istante.

Mentre Dorian è stordito, non sente il dolore totale associato normalmente a questo tipo di tragedia.

Lord Henry è più preoccupato per la reputazione di Dorian, perché è in corso un'inchiesta per determinare le circostanze della morte di Sibyl.

Dorian non crede di poter essere legato a Sibyl da nessuno dei suoi conoscenti e quindi non sarebbe macchiato dallo scandalo del suo suicidio.

Dorian si sente responsabile per la morte di Sibyl.

Se non si fosse separato da lei in un modo così crudele, probabilmente sarebbe ancora viva.

Dorian ora è convinto che il ritratto assumerà gli attributi fisici di ogni peccato che commette.

Sente che questo è in qualche modo giusto e che merita questo miracolo.

Basil visita Dorian il mattino dopo per esprimere la sua comprensione per la morte di Sibyl.

È sbalordito nello scoprire che Dorian ha passato la serata precedente all'opera con Lord Henry, ed indignato nello scoprire che Dorian non prova dolore per la perdita di Sibyl.

Durante la visita chiede a Dorian di vedere il ritratto, ma Dorian è fermamente convinto che Basil non dovrebbe vederlo.

Dice a Basil che se guarda il dipinto non gli rivolgerà mai più la parola.

Dice a Dorian che intende utilizzare il quadro come esposizione principale di una mostra d'arte della sua opera, a Parigi.

Dorian risponde che l'immagine non dovrà mai essere esposta in pubblico.

Dorian, alla fine, decide di nascondere per sempre il quadro.

Una volta che il quadro è al sicuro, Dorian inizia a sentirsi più a suo agio.

Solo lui tiene la chiave della stanza, quindi sa che nessun altro sarà in grado di vedere le devastazioni del tempo e del peccato sul dipinto.

Lord Henry manda a Dorian un libro e l'ultima edizione del giornale che contiene un articolo riguardante l'inchiesta sulla morte di Sibyl Vane. La morte è stata dichiarata "morte per disavventura".

A Dorian è chiaro che nessuno sa del suo legame con Sibyl: nessuno potrà accusarlo e la sua reputazione è salva.

Il libro che Lord Henry ha mandato, cattura l'interesse di Dorian.

GIOVANNI PASCOLI

Il fanciullo

Il poeta diventa quel fanciullino presente nell’anima di ognuno di noi, un fanciullino che rimane piccolo anche quando noi cresciamo occupando il tempo a inseguire gli affanni della vita: anche se non lo guardiamo, quel fanciullino dentro di noi resta sempre presente secondo Pascoli. Il fanciullino arriva alla verità in modo intuitivo, guardando tutte le cose con stupore, come se fosse sempre la prima volta che le vede. Anche la poesia deve di conseguenza essere spontanea e intuitiva, come intuitivo è il modo dei fanciulli per giungere alla conoscenza.

Myricae

"Myricae" è una raccolta di poesie scritta dal poeta italiano Giovanni Pascoli e pubblicata nel 1891. Il titolo "Myricae" si riferisce alla pianta del mirto, simbolo di umiltà e modestia nella cultura greca antica, ma anche al luogo natale del poeta, il paesino di San Mauro di Romagna, dove i mirtilli crescevano spontaneamente.

Le poesie di "Myricae" sono per lo più brevi e sono scritte in versi liberi, senza una regolare metrica. Esse esprimono la nostalgia di Pascoli per la sua infanzia e il suo paesaggio natale, ma anche la tristezza e la malinconia per la perdita dei suoi genitori e la difficoltà di accettare la morte.

Le poesie sono cariche di immagini naturalistiche e di simbolismi, che si fondono in un linguaggio poetico molto suggestivo e intenso. Pascoli utilizza spesso elementi della natura come metafore per esprimere stati d'animo e sensazioni, e descrive con grande delicatezza i dettagli del paesaggio e della vita quotidiana del suo tempo.

"Myricae" è considerata una delle raccolte di poesie più importanti della letteratura italiana e ha influenzato molti poeti successivi. La sua profonda umanità e la capacità di trasformare le piccole cose della vita in poesia l'hanno resa una testimonianza duratura dell'animo italiano.

Temporale (In campagna, XII)

"Temporale" descrive l'arrivo di un temporale estivo nella campagna romagnola, con grande attenzione ai dettagli della natura e del paesaggio. Il poeta utilizza metafore e simboli per descrivere l'atmosfera del temporale, creando una sensazione di angoscia e di imminente pericolo, ma anche di fascinazione per la bellezza della natura.

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Un bubbolìo lontano...

Rosseggia l’orizzonte,

come affocato, a mare:

nero di pece, a monte,

stracci di nubi chiare:

tra il nero un casolare:

un’ala di gabbiano.

Il lampo (Tristezze, IX)

"Il lampo" è una poesia che descrive l'impatto visivo di un lampo durante una tempesta. Il poeta sottolinea l'effetto improvviso e sorprendente del lampo, che illumina la campagna e crea una sensazione di stupore e di incanto.

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E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto;

il cielo ingombro, tragico, disfatto:

bianca bianca nel tacito tumulto

una casa apparì sparì d’un tratto;

come un occhio, che, largo, esterrefatto,

s’aprì si chiuse, nella notte nera.

Il tuono (Tristezze, X)

"Il tuono" invece descrive il rumore assordante del tuono che accompagna il temporale. Il poeta sottolinea l'effetto minaccioso e spaventoso del tuono, che riecheggia nella campagna e crea una sensazione di paura e di inquietudine.

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E nella notte nera come il nulla,

a un tratto, col fragor d’arduo dirupo

che frana, il tuono rimbombò di schianto:

rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,

e tacque, e poi rimareggiò rinfranto,

e poi vanì. Soave allora un canto

s’udì, di madre, e il moto di una culla.

I Canti di Castelvecchio

"I Canti di Castelvecchio" è una raccolta di poesie di Giovanni Pascoli pubblicata nel 1903.

Il titolo si riferisce alla località di Castelvecchio, in provincia di Lucca, dove Pascoli trascorse un periodo della sua vita. Questa esperienza influenzò profondamente la sua poesia, che divenne più intima e personale, ma anche più universale e simbolica.

I temi principali della raccolta sono la natura, il tempo, la solitudine, la memoria, l'amore e la morte. Pascoli esplora il significato profondo della vita attraverso l'osservazione dei fenomeni naturali, della storia e della cultura, ma anche attraverso il ricordo del passato e la contemplazione della morte.

La lingua utilizzata da Pascoli in questa raccolta è molto complessa e raffinata, caratterizzata da una forte musicalità e da una grande attenzione ai suoni e alle parole. Il poeta utilizza spesso parole rare o arcaiche, e la sua prosodia è molto elaborata, con frequenti rime e assonanze che conferiscono alle sue poesie un ritmo incalzante e coinvolgente.

Il gelsomino notturno (Canti di Castelvecchio)

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E s’aprono i fiori notturni,

nell’ora che penso ai miei cari.

Sono apparse in mezzo ai viburni

le farfalle crepuscolari.

Da un pezzo si tacquero i gridi:

là sola una casa bisbiglia.

Sotto l’ali dormono i nidi,

come gli occhi sotto le ciglia.

Dai calici aperti si esala

l’odore di fragole rosse.

Splende un lume là nella sala.

Nasce l’erba sopra le fosse.

Un’ape tardiva sussurra

trovando già prese le celle.

La Chioccetta per l’aia azzurra

va col suo pigolio di stelle.

Per tutta la notte s’esala

l’odore che passa col vento.

Passa il lume su per la scala;

brilla al primo piano: s’è spento...

È l’alba: si chiudono i petali

un poco gualciti; si cova,

dentro l’urna molle e segreta,

non so che felicità nuova.

GABRIELE D’ANNUNZIO

Alcyone

E’ il terzo libro in cui D’Annunzio vuole celebrare l’estate e il suo valore simbolico. Per D’Annunzio, l’estate corrisponde al periodo più rigoglioso della vita di un uomo e all’energia dell’ispirazione artistica.

Alcyone è suddiviso in cinque sezioni per un totale di 88 testi. Le cinque sezioni sono distinte da specificità tematiche; ogni sezione è caratterizzata dal riferimento a un momento stagionale e ad un ambiente naturale-paesaggistico, nonché da un corrispondente stato d’animo. Il libro è aperto dal testo poetico La Tregua che funge da cerniera tra Alcyone e gli altri due libri. Mentre gli altri due libri volevano rappresentare l’impegno eroico-civile del superuomo, Alcyone costituisce una tregua del superuomo, il suo momento di riposo di abbandono alla natura, infatti, il tema fondamentale sarà il panismo (identificazione dell’uomo con la natura).

La prima sezione è ambientata nel paesaggio agreste tra Fiesole e Firenze nel mese di Giugno nel momento in cui la primavera passa nell’estate. I testi che la compongono sono delle lodi (o “laudi” pagane) di luoghi, piante, ore del giorno, dell’estate che sta arrivando. Le lodi sono pagane dove ad essere lodati sono gli elementi della natura (“La sera Fiesolana”).

La seconda sezione sposta l’ambientazione in Versilia; l’estate è esplosa e i testi che ne fanno parte appartengono al periodo di Luglio. C’è la celebrazione del rapporto panico dell’uomo con la natura, l’uomo tende a sciogliersi, identificarsi nella natura perdendo la propria identità, è il caso di un testo come La pioggia nel pineto e Le Stirpi canore.

La terza sezione comprende anch’essa testi dedicati all’estate piena e qui al panismo si mescola molto la teoria del superuomo.

La quarta sezione è dedicata ancora all’estate culminante e però anche ai primi presagi autunnali, così come l’estate tramonta, tramontano anche i miti della ricchezza. L’unico mito che rimane è quello della poesia, dell’arte.

La quinta sezione è l’ultima è ambientata alla fine dell’estate, in settembre. Domina l’idea del ripiegamento, della fuga del tempo, dell’estate che se ne va con il sopraggiungere dell’autunno. Il libro è chiuso dal testo poetico Il commiato in cui vengono celebrati i luoghi versiliane che hanno ospitato l’ambientazione dei testi poetici durante l’estate ora finita. Il testo contiene anche un saluto e una dedica a Pascoli che ha un corrispettivo una dedica e saluto per Carducci contenuto in Maia.

I temi di Alcyone

Alcyone è il capolavoro di D’Annunzio, è la prova più raffinata e varia della poesia dannunziana. Non c’è varietà di temi ma variazione di temi: quelli che vengono trattati sono pochi ma con continue variazioni. La vicenda narrativa è molto semplice: D’Annunzio vuol descrivere gli stati d’animo, le sensazioni vissute in estate, per lo più marina. Le figure di donna che ci sono spesso rappresentate da Eleonora Duse, sono figure sfuggevoli, sono le donne ipotetiche, equivalgono ai personaggi del mito. Le avventure del protagonista si sovrappongono ai modelli classici che le ispirano: i luoghi della Toscana sono essi stessi travestiti da Grecia classica e arcaica.

I temi principali sono in tutto tre:

1. Lo scambio tra naturale e umano. Come testimoniano i primi due libri delle Laudi, l’eroismo del “superuomo” dannunziano consiste nell’eccezionalità di fronte agli altri uomini, verso i quali egli rivendica un’identità forte e superiore. Al cospetto invece della realtà naturale, il superuomo rivela la capacità di fondersi in essa, di perdere la propria identità personale, circoscritta e limitata, per assumere in modo panico l’identità del paesaggio circostante. Questa fusione può giungere fino alla vegetalizzazione” dell’umano: è come se il sistema nervoso del soggetto lirico si prolungasse nelle fibre delle piante e la rappresentazione della realtà circostante si svolgesse secondo quel particolare punto di vista. Altre volte l’identificazione avviene con creature animali, di solito desunte dal mito classico. Più in generale Alcyone rappresenta una capacità di entrare in contatto diretto con la natura, di ascoltare la sua voce, di vivere le sue misteriose leggi fino ad raggiungere la chiave dei suoi segreti.

2. La ritualizzazione del mito. Perché la natura possa assumere questa funzione privilegiata sul piano dei significati, è necessario restituirle la vitalità e la verginità distrutte dal mondo moderno. L’unico modo attraverso cui è possibile farlo consiste nel recupero del mito. D’Annunzio rivitalizza il binomio mito-natura: da una parte recupera i grandi miti naturali della classicità dall’altra rappresenta la propria vicenda individuale di immersione nella natura in termini mitici.

3. L’esaltazione della parola, dell’arte e della figura del poeta. Ciò che permette di stabilire un nuovo contatto tra autenticità interiore dell’io e rivelazione naturale è la parola poetica. E’ dunque essa lo strumento suscitatore del mito, e, anzi creatore di nuovi miti. L’arte diventa lo strumento per attuare i due temi precedenti; il poeta è il detentore di un privilegio artistico in quanto è l’unico che riesce a indagare i misteri della natura.

La pioggia nel pineto (Alcyone)

La pioggia nel pineto è tratta da Alcyone, ossia le laudi della terra. Ci sono elementi del panismo, quindi la natura diventa per D’Annunzio un unico grande organismo, un tutto, di cui fa parte l’uomo (soprattutto l’uomo con le caratteristiche del superuomo). Quindi il superuomo fa parte della natura (l'uomo vive di vita naturale) e anche la natura si umanizza (vive di vita umana).

La pioggia del pineto è il momento più alto del panismo Dannunziano.

L’autore si trova in una pineta con la donna amata di nome Ermione (nome tratto da un mito greco, e quindi c'è una esaltazione superomistica). Loro passeggiano sulla riva del mare e sono colti dalla pioggia improvvisa. Mentre passeggiano sotto la pioggia all’interno della pineta si sentono parte stessa della pineta, e la pioggia che li rinfresca è come se li nutrisse di questa vita vegetale e animale.

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TACI. Su le soglie

del bosco non odo

parole che dici

umane; ma odo

parole più nuove

che parlano gocciole e foglie

lontane.

Ascolta. Piove

dalle nuvole sparse.

Piove su le tamerici

salmastre ed arse,

piove su i pini

scagliosi ed irti,

piove su i mirti

divini,

su le ginestre fulgenti

di fiori accolti,

su i ginepri folti

di coccole aulenti,

piove su i nostri vólti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

t’illuse, che oggi m’illude,

o Ermione.

Odi? La pioggia cade

su la solitaria

verdura

con un crepitìo che dura

e varia nell’aria

secondo le fronde

più rade, men rade.

Ascolta. Risponde

al pianto il canto

delle cicale

che il pianto australe

non impaura,

né il ciel cinerino.

E il pino

ha un suono, e il mirto

altro suono, e il ginepro

altro ancóra, stromenti

diversi

sotto innumerevoli dita.

E immersi

noi siam nello spirto

silvestre,

d’arborea vita viventi;

e il tuo vólto ebro

è molle di pioggia

come una foglia,

e le tue chiome

auliscono come

le chiare ginestre,

o creatura terrestre

che hai nome

Ermione.

Ascolta, ascolta. L’accordo

delle aeree cicale

a poco a poco

più sordo

si fa sotto il pianto

che cresce;

ma un canto vi si mesce

più roco

che di laggiù sale,

dall’umida ombra remota.

Più sordo e più fioco

s’allenta, si spegne.

Sola una nota

ancor trema, si spegne,

risorge, trema, si spegne.

Non s’ode voce del mare.

Or s’ode su tutta la fronda

crosciare

l’argentea pioggia

che monda,

il croscio che varia

secondo la fronda

più folta, men folta.

Ascolta.

La figlia dell’aria

è muta; ma la figlia

del limo lontana,

la rana,

canta nell’ombra più fonda,

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su le tue ciglia,

Ermione.

Piove su le tue ciglia nere

sì che par tu pianga

ma di piacere; non bianca

ma quasi fatta virente,

par da scorza tu esca.

E tutta la vita è in noi fresca

aulente,

il cuor nel petto è come pèsca

intatta,

tra le pàlpebre gli occhi

son come polle tra l’erbe,

i denti negli alvèoli

son come mandorle acerbe.

E andiam di fratta in fratta,

or congiunti or disciolti

(e il verde vigor rude

ci allaccia i mallèoli

c’intrica i ginocchi)

chi sa dove, chi sa dove!

E piove su i nostri vólti

silvani,

piove su le nostre mani

ignude,

su i nostri vestimenti

leggieri,

su i freschi pensieri

che l’anima schiude

novella,

su la favola bella

che ieri

m’illuse, che oggi t’illude,

o Ermione.

Il piacere

Il Piacere è la storia di Andrea Sperelli, un ricco e aristocratico cultore dell’arte in tutte le sue sfaccettature, incline ai piaceri della vita quotidiana. Giunto a Roma nell’ottobre 1884, Andrea inizia a frequentare i luoghi e le feste più elitarie della capitale. È in una di queste che conosce Elena Muti, una giovane contessa rimasta vedova con la quale intraprende ben presto una focosa relazione. Quando però, nel marzo 1885, la donna annuncia ad Andrea di voler troncare la storia e di aver preso la decisione di andarsene da Roma, questi inizia una vita volta alla dissoluzione e alla depravazione. Dopo essere passato di donna in donna, fa la conoscenza di Maria Ferres, donna casta e religiosa di cui si invaghisce e che intende ad ogni costo conquistare.

Tornata nel frattempo a Roma anche Elena, Andrea decide di fare sue entrambe le donne; ma se con Maria la strada sembra essere in discesa, la Muti gli resiste, accrescendo in lui il desiderio di possederla.

Così, pur avendo instaurato una intensa relazione con Maria, il giovane Sperelli non fa che pensare ad Elena e per errore chiama la propria donna con il suo nome. Dopo aver perso Elena, Andrea perde così anche Maria, restando solo.

Il Piacere si apre a palazzo Zuccari, residenza del conte Andrea Sperelli Fieschi d'Ugenta, il giovane e aristocratico protagonista del racconto, tutto pervaso dalla convinzione che «bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte». È nelle sue stanze che Andrea sta impazientemente aspettando la contessa Elena Muti, l’ex amante da cui è stato abbandonato qualche mese prima. Rivive così con la mente il “giorno del gran commiato” avvenuto due anni prima quando, durante una gita romantica fuori porta, Elena gli aveva dichiarato la propria intenzione di troncare la loro relazione e di andarsene da Roma, pur provando ancora un reale e tangibile sentimento per l’uomo.

Elena, che nel frattempo si è sposata con un Lord inglese, entrata in quella casa che per lungo tempo è stata dimora dell’amore dei due ha un tuffo al cuore, ma tenta con tutte le proprie forze di resistervi, riuscendovi.

Deluso e amareggiato dal rifiuto, Andrea ripercorre con la mente tutti i bei momenti vissuti al fianco di Elena: dall’accendersi della prima fiamma di intesa, al divampare dell’incendio della passione, fino allo spegnersi di tutto. Dopo la cocente delusione amorosa, Andrea decide di dedicarsi alla vita mondana, e passa di donna in donna cercando in ognuna qualcosa che gli ricordi Elena.

Durante il corteggiamento a Donna Ippolita Albonico, il giovane ragazzo si ritrova a duellare con l’amante della donna e ne rimane ferito. Andrea passa così la convalescenza a villa Schifanoja, un podere nella campagna di Ravigliano, sotto le cure della propria cugina, la marchesa Francesca d’Ateleta.

Deciso a rinnegare la vita voluttuosa vissuta fino a quel momento, Andrea fa la conoscenza di Maria Ferres, moglie del ministro plenipotenziario di Guatemala. Irrimediabilmente colpito dall’inclinazione spirituale della donna, il giovane Sperelli decide di mettersi alla sua conquista. Maria, pur essendo fortemente tentata da Andrea, cerca in tutti i modi di resistere alle sue avances, ma alla fine è costretta a cedervi e a confessare il proprio amore.

Tornato a Roma dopo la convalescenza, Andrea si rende ben presto conto che la vita mondana non lo soddisfa più, bensì gli lascia nell’anima un senso di vuoto e di incompletezza. Si ritorna quindi all’avvenimento con cui si era aperto il racconto: l’incontro tra Andrea ed Elena.

Andrea viene finalmente a conoscenza del reale motivo per cui Elena lo aveva abbandonato: sull’orlo di una crisi finanziaria, la donna aveva preso la decisione di sposarsi con il ricchissimo inglese Lord Heathfield. Ancora troppo preso da Elena, Andrea decide di provare a riconquistarla, invano. Nel frattempo anche Maria torna a Roma e Andrea, desideroso di fare sua la donna, si mette all’attacco. Un atteggiamento che fa ingelosire la Muti che, dopo aver assistito ad un appuntamento a teatro tra i due, bacia appassionatamente Andrea. Ma quest’ultimo è ora tutto concentrato sulla Ferres che, dopo così tante avances, cede all’amore del giovane Sperelli.

Nel momento in cui è riuscito a conquistare la casta donna, il predatore sente però di nuovo sorgere dentro di sé il desiderio di riconquistare Elena: ossessionato dall’ex amante e venuto a conoscenza del fatto che la Muti frequenta un nuovo uomo, nel bel mezzo del rapporto sessuale Andrea chiama Maria con il nome dell’altra donna; abbandonato anche dalla Ferres, resta infine solo.

Andrea Sperelli, (Il piacere, Libro primo, cap. II)

Nel secondo capitolo de "Il Piacere" di Gabriele D'Annunzio, il protagonista Andrea Sperelli viene descritto come un giovane aristocratico di trent'anni, dalla figura slanciata, elegante e attraente, con un viso "pallido e perfetto" dai lineamenti fini e aristocratici.

Sperelli è descritto come un uomo raffinato e colto, appassionato di arte e di bellezza, ma anche estremamente vanitoso e superficiale. Il suo modo di parlare è ricercato e studiato, e la sua presenza magnetica e seducente suscita l'ammirazione e l'invidia degli altri personaggi.

Nel corso del capitolo, si viene a conoscenza del suo passato amoroso, caratterizzato da numerose avventure sentimentali, tutte finite male. Nonostante questo, Sperelli continua a cercare il piacere nella bellezza e nella seduzione, mostrando un atteggiamento cinico e disincantato nei confronti dell'amore.

La descrizione di Andrea Sperelli è un esempio della figura del dandy, una figura maschile dell'epoca che si caratterizzava per la ricerca dell'eleganza e del piacere estetico, ma anche per la vanità, la superficialità e l'incapacità di provare sentimenti autentici. La figura del dandy rappresenta una critica alla società aristocratica dell'epoca, contraddistinta da una superficialità e da un'eccessiva attenzione all'apparenza e al lusso.

MARINETTI E IL FUTURISMO

Manifesto del Futurismo

Il Manifesto del Futurismo, scritto da Filippo Tommaso Marinetti e pubblicato il 20 febbraio 1909 sul quotidiano francese "Le Figaro", rappresenta uno dei documenti più importanti del movimento artistico e culturale del Futurismo.

Il manifesto afferma la necessità di abbandonare le tradizioni artistiche del passato e di abbracciare la modernità e l'innovazione tecnologica dell'epoca, in particolare l'automobile, l'aeroplano e le macchine industriali, per creare un'arte nuova e rivoluzionaria.

Il Futurismo propone un'arte che celebra la velocità, il dinamismo, l'energia e il movimento, con una forte enfasi sulla sensazione di velocità e sulla liberazione dei sensi. Marinetti afferma che "il piacere di distruggere è un piacere creativo", sostenendo la necessità di rompere con le vecchie tradizioni artistiche e di creare un'arte che sia allineata alla modernità e alla vita del XX secolo.

Il Manifesto del Futurismo è stato criticato per il suo atteggiamento aggressivo e polemico, ma ha avuto un enorme impatto sull'arte e sulla cultura del XX secolo, influenzando diverse correnti artistiche e culturali come il surrealismo, il dadaismo e il movimento Bauhaus.

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Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture.

Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che si agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a folle corsa…

Allora, col volto coperto dalla buona melma delle officine – impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti – noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra.

LUIGI PIRANDELLO

I romanzi siciliani

Tra il 1893 e il1925 Pirandello scrive e pubblica sei romanzi:

L’esclusa, Il turno, Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Uno nessuno e centomila.

Un settimo romanzo Suo marito ebbe una vicenda editoriale particolare e non venne terminato. Tranne I vecchi e i giovani che è un romanzo storico ambientato in Sicilia negli ultimi anni dell’Ottocento, gli altri romanzi raccontano storie paradossali ambientate nei tempi moderni. Marta Ayala la protagonista de L’esclusa viene cacciata di casa dal marito quando è innocente e riaccolta dopo aver commesso l’adulterio, di cui era stata ingiustamente sospettata e accusata. Mattia Pascal legge la notizia del proprio suicidio sul giornale e decide di approfittarne rifacendosi una vita lontano dalla moglie e dalla propria infelice famiglia, scopre presto che la nuova vita non è migliore della precedente, e così “si suicida” di nuovo e torna al paese dove però può solo fare il “fu Mattia Pascal”. Vicende non meno paradossali capitano a Serafino Gubbio, Pepè Alletto e Vitangelo Moscarda, protagonisti degli altri romanzi. Dopo i primi romanzi che seguono ancora la narrativa verista Pirandello utilizza tecniche narrative moderne che dissolvono la forma tradizionale del romanzo: adozione dell’io narrante, struttura aperta e intrecci anomali del racconto, impianto umoristico delle vicende.

Uno, nessuno e centomila

Inizialmente Vitangelo Moscarda (Gengé per gli amici) ci viene presentato come un uomo del tutto comune e normale, senza nessun tipo di angoscia né di tipo esistenziale né materiale: conduce una vita agiata e priva di problemi grazie alla banca (e alla connessa attività di usuraio) ereditata dal padre. Un giorno questa piatta tranquillità viene però turbata: l’elemento disturbatore è un banale e innocente commento pronunciato dalla moglie di Vitangelo riguardo al fatto che il suo naso penda un po’ da una parte. Da questo momento la vita del protagonista cambia completamente, poiché Gengé si rende conto di apparire al prossimo molto diverso da come egli si è sempre percepito. Così decide di cambiare radicalmente il suo stile di vita, nella speranza di scoprire chi sia veramente, e a quale proiezione di sé corrisponda il suo animo. Nel processo di ricerca per trovare sé stesso compie azioni che vanno contro a quella che era stata la sua natura sino a quel momento: sfratta una famiglia di affittuari per poi donare loro una casa, si sbarazza della banca ereditata dal padre (inimicandosi ovviamente familiari e parenti), e inizia ad ossessionare chi gli sta vicino, con discorsi e riflessioni oscure che lo fanno passare per pazzo agli occhi della comunità. La situazione si aggrava al punto che la moglie abbandona la casa coniugale, e, insieme ad alcuni amici, inizia un'azione legale contro Vitangelo col fine d’interdirlo. Gli rimane fedele in un primo momento solo un’amica della moglie, Anna Rosa, che poco dopo però, spaventata dai ragionamenti di Vitangelo, arriva addirittura a sparargli, senza ucciderlo ma ferendolo in modo serio. Vitangelo, il cui "io" è ormai completamente frantumato nei suoi "centomila" alter ego, sembra trovare una tregua ai propri patimenti solo nel confronto con un religioso, Monsignor Partanna, che lo sprona a rinunciare a tutti i suoi beni terreni in favore dei meno fortunati. Il tormentato protagonista pirandelliano, rifugiatosi nell'ospizio ch'egli stesso ha donato alla città, riesce così a trovare un po’ di pace e di serenità solo nella fusione totalizzante (e quasi misticheggiante) con il mondo di Natura, l'unico in cui egli può abbandonare senza timori tutte le "maschere" che la società umana gli ha a mano a mano imposto.

Il treno ha fischiato (L’uomo solo)

La novella racconta la storia di un contabile, Belluca. Egli ha un carattere molto mite, puntuale e dedito al lavoro, sottomesso da tutti. Per descriverlo, lo scrittore adopera la metafora del somaro perché tante volte egli veniva rimproverato e fatto sgobbare dai colleghi di lavoro senza pietà e per scherzo, con lo scopo di vedere la sua reazione; mai egli non si era mai ribellato ed aveva sempre accettato le ingiustizie, anche le più crudeli, senza dire una parola.

Un giorno inizia a comportarsi in un modo non corrispondente al suo carattere di sempre, tale da non sembrare più nemmeno lui: arriva in ritardo in ufficio e non svolge regolarmente il suo lavoro. Quando il capo ufficio entra nella stanza per controllare il lavoro svolto , si accorge che egli non aveva lavorato e sorpreso, e gliene chiede il motivo. Il contabile reagisce scagliandosi con violenza contro il suo capo, ripetendo più volte, che un treno ha fischiato nella notte, portandolo in luoghi lontani come la Siberia e il Congo. A questo punto viene creduto pazzo e ricoverato in un ospedale psichiatrico.

Giunto in ospedale, continua a parlare a tutti del treno; i suoi occhi hanno una luce particolare, simili a quelli di un bambino felice, e dalla sua bocca escono frasi senza senso. La cosa suscita incredulità e stupore perché fino ad ora si era sempre occupato di numeri e di registri e mai dalla sua bocca erano uscite espressioni poetiche che rimandavano a paesaggi bellissimi quanto ignoti. All’improvviso, un vicino di casa che lo conosce inizia a gridare che Belluca non è impazzito ma che è necessario conoscere la vita che egli è costretto a condurre, prima di esprimere un giudizio su di lui ed accusarlo di pazzia.

Infatti, egli vive in una situazione familiare disastrosa. La sua numerosa famiglia si compone di dodici persone: la moglie, la suocera e la sorella della suocera, tutte e tre cieche; hanno bisogno continuamente di essere servite e non fanno altro che strillare, dalla mattina alla sera. Oltre alle tre donne, in casa vivono due figlie, vedove con quattro figli la prima e tre la seconda. Con lo scarso guadagno da impiegato, Belluca non è in grado di sfamare tutte queste bocche, per cui si è dovuto procurare un secondo lavoro che svolge la sera, fino a tardi che lo sfinisce e lo porta all’esaurimento.

Quando Belluca riceve la visita del suo amico, che lo informa che tutti lo credono affetto da follia, lui stesso gli racconta di quella sera quando, essendo talmente stanco, da non riuscire a dormire, sente da lontano un fischio di un treno e, quindi, la sua mente lo riporta indietro nel tempo quando anche lui conduceva una vita “normale” a cui da tempo non pensava più; e quello che gli è successo è stato un ritorno al passato che lo ha fatto evadere della vita misera che conduce.

Dimesso dall’ospedale, ritorna alla solita vita da contabile, si scusa con il capoufficio il quale, però, gli concede, ogni tanto di pensare al treno che ha fischiato e di evadere, con l’immaginazione, verso paesi lontani.

Sei personaggi in cerca d’autore e il “teatro nel teatro”

Un'opera teatrale composta nel 1921 circa e rivisitata dall'autore quattro anni più tardi, nel 1925. Le tematiche che l'autore presenta in Sei personaggi in cerca d'autore vengono anticipate in altri scritti e, diversamente da altri drammi, non è suddivisa in atti, ma è comunque possibile darle una ripartizione in base alle naturali interruzioni che si creano nel susseguirsi delle vicende.

L’antefatto di Sei personaggi in cerca d'autore descrive l’arrivo di sei personaggi (il Padre, la Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto e la Bambina), i quali irrompendo sul palcoscenico, già popolato dagli Attori (il Capocomico, il primo attore, la prima attrice, la seconda donna, l’attrice giovane e l’attore giovane), illustrano al meglio la loro vicenda per farla inscenare. Il Padre spiega, secondo il suo personale punto di vista, come il tradimento di sua moglie con un altro uomo sia stata la causa della fine della loro storia d’amore. La Madre, nonché la moglie del Padre, fu pertanto privata del Figlio, nato dal matrimonio con il Padre, e successivamente fu privata anche dell’amore del convivente, il quale morendo, lasciò la donna e i tre figli (la Figliastra, il Giovinetto e la Bambina) da lei avuti. Lo spiacevole evento creò un tale disagio economico da costringere la Madre a lavorare come sarta nella bottega di Madama Pace, la quale nasconde nel retrobottega una casa di appuntamenti. Qui la Figliastra si prostituisce al fine di dare un ausilio economico alla famiglia.

È subito dopo l’antefatto che si colloca la prima interruzione, durante la quale sia i Personaggi che gli Attori abbandonano il palco per collaborare all’abbozzo di una trama scritta (canovaccio) nel tentativo di mettere in scena una commedia da fare.

Il questo arco di tempo il palco sarà allestito in modo frivolo.

All’interruzione si sussegue la prima parte della commedia da fare, la cui scena esordisce con un grido di sgomento della Madre che evita l’incesto tra Padre e Figliastra.

La scena è interrotta erroneamente dal macchinista che chiude il sipario, pertanto si riprende direttamente con la seconda parte della commedia da fare.

La storia progredisce con la figura del Padre (maschera del rimorso), il quale impietosito dalle condizioni di miseria della Madre (maschera del dolore) e dello spiacevole evento presentatosi con la Figliastra (maschera della vendetta), decide di accogliere tutta la famiglia nella sua dimora. La narrazione incede ponendo attenzione al silenzio del Figlio (maschera dello sdegno), sinonimo della sua disapprovazione, al continuo affannarsi della Madre nel tentativo di recuperare l’ormai perduto rapporto con il Figlio e al contrastato rapporto tra Padre e Figliastra. Tale situazione si ripercuote nelle due figure più ingenue dell’opera: la Bambina, che muore annegata nella vasca del giardino, e il Giovinetto, che si suicida con un colpo di pistola.

L’opera degrada a tal punto da far intimorire e disorientare gli Attori, che immediatamente fuggono dal palco.

L’intera opera teatrale rilascia e infonde negli spettatori, inclusi gli Attori, un senso di malinconia e turbamento, accentuato, a maggior ragione nella parte conclusiva, dalla stridula risata della Figliastra. Tale risata, non implica uno stato d’animo gioioso, ma, secondo una valutazione umoristica ed allegorica, ricalca la derisione nell’esigere, con insistenza, un senso unitario.

Il fu Mattia Pascal

Il libro di Pirandello racconta la storia di Mattia Pascal, che vive a Miragno, in Liguria. Mentre si trova nella biblioteca della città, Mattia Pascal decide di raccontare la sua storia.

Il protagonista del romanzo racconta che in precedenza viveva insieme alla madre e al fratello Roberto in condizioni agiate grazie al lavoro del padre, che investì soldi in proprietà. Dalla sua morte, avvenuta quando Mattia aveva quattro anni e mezzo, si erano affidati a Batta Malagna, il quale per pagare i debiti iniziò a venderle, arricchendosi sfruttando l’ignoranza della madreMattia Pascal era stato perciò costretto a cercare lavoro trovandolo presso la biblioteca.

L’amico Pomino è innamorato di Romilda Pescatrice, la quale però si innamora di Mattia, che la sposa. Mattia e Romilda vivono insieme alla suocera.

La famiglia e il lavoro rappresentano una trappola per Mattia Pascal. Lui e la moglie hanno due gemelle: la prima muore subito, la seconda dopo un anno; poco dopo muore anche la madre, così Mattia decide di andare in America. Si ferma a Montecarlo, dove gioca d’azzardo al casinò per 12 giorni, andandosene con un bottino di 82 mila lire.

Mentre in treno escogita un modo per scappare dalla sua vita, legge il suo necrologio: la moglie e la suocera, credendolo morto, lo avevano riconosciuto in un cadavere ritrovato in quei giorni. Mattia decide di iniziare una nuova vita e sentendo due signori discutere sull’iconografia cristiana, ricava il nuovo nome: Adriano Meis.

Adriano getta via la fede e si inventa un nuovo passato. Decide di operarsi l’occhio strabico e tagliare barba e capelli. Dopodiché, da Milano si trasferisce a Roma. Qui vive in affitto in una camera ammobiliata. Stinge amicizia con l’affittuario, la figlia Adriana e l’altra donna in affitto. Presto si accorge che non avere un passato lo costringe alle bugie: molti iniziano a fargli domande personali, alle quali lui risponde con storie inventate.

Adriano continua a ripetere di essere libero, ma molto spesso il ricordo va alla famiglia. Si innamora di Adriana e durante una seduta spiritica la bacia e poi viene derubato. La vuole sposare ma non può, perché Adriano Meis non esiste. Sapendo di essere vivo per la morte ma morto per la vita, decide di fingere un suicidio. Lascia vicino al ponte un biglietto d’addio e torna al suo paese. Qui trova la moglie sposata con Pomino, con una figlia.

Decide di non riprenderla in moglie ma di lasciarla all’amico, fa due giri intorno al villaggio ma nessuno se ne accorge, poi si dirige verso la biblioteca. Ogni tanto va al cimitero, dove lascia dei fiori per leggere la sua epigrafe.

ITALO SVEVO

La coscienza di Zeno (1923)

Il testo si compone di otto capitoli, che sarà utile seguire per focalizzare bene la trama del romanzo. In una breve Prefazione il dottore S. presenta la sua decisione di pubblicare le memorie di Svevo. Nel successivo Preambolo la parola passa a Zeno, che ci dice di non poter recuperare la sua infanzia, ormai troppo lontana nella memoria.

Il capitolo Il fumo è dedicato al famoso proposito dell’ultima sigaretta, che Zeno non riesce mai a mettere in pratica, perché ogni volta che si impone di smettere di fumare fallisce per i sotterfugi che egli stesso mette in pratica. Nel capitolo La morte di mio padre invece Zeno torna indietro alla sua giovinezza e al difficile rapporto col padre che, in punto di morte, gli dà uno schiaffo (che poteva anche essere una carezza), che Zeno interpreta come ultima punizione e sberleffo del padre nei suoi confronti.

Nel capitolo La storia del mio matrimonio si parla della frequentazione di Zeno con la famiglia Malfenti e le quattro sorelle Ada, Augusta, Alberta e Anna. Zeno è innamorato della bellissima Ada, ma l’impossibilità di questo amore lo induce a ripiegare verso Alberta e infine, quasi senza rendersene conto, verso la meno bella Augusta, che però si rivela una moglie modello, dotata di quella concretezza e quella salute di cui Zeno si sente privo. Questo tormento continuo porta Zeno, marito felice, a instaurare un rapporto clandestino con Carla, di cui si racconta nel capitolo La moglie e l’amante.

Nel capitolo Storia di un’associazione commerciale Zeno ci conduce all’interno del suo mondo lavorativo e ci racconta il suo rapporto con Guido Speier, marito di Ada, la cui abilità nel lavoro e la cui fortuna in tutte le cose della vita fanno da contraltare ai continui fallimenti di Zeno. Tuttavia Guido si rivelerà alla fine più fragile di quello che sembrava e le improvvise difficoltà lo porteranno al suicidio.

Nell’ultimo capitolo, Psico-analisi, la narrazione torna al presente e Zeno annuncia la sua decisione di abbandonare la cura, criticando il metodo psicanalitico del medico e dichiarando di essere guarito dalla sua malattia grazie a una serie di successi commerciali favoriti dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

UNGARETTI

L’Allegria

“L’Allegria” è una raccolta di liriche brevi, fatte di intuizioni fulminee, ispirate alla guerra; i temi fondamentali da lui toccati sono: la fratellanza, la vitala morte e il destino precario dell’uomo.

L’allegria è intesa come necessità, oltre alla fratellanza come antitesi alla morte ed alla tragedia della guerra. Non si può prescindere inoltre dal carattere autobiografico della poesia di Ungaretti: le sue liriche più famose sono infatti in rapporto con l’elemento biografico, tuttavia questo elemento viene costantemente trasceso.

È indubbio però che la raccolta è segnata fortemente dall’esperienza della guerra di cui vengono descritti tutti gli orrori, senza retorica e con estrema sofferenza.

Ma oltre agli aspetti della guerra, molte sono le occasioni i recupero del dato memoriale della raccolta, legato soprattutto all’infanzia e all’adolescenza. Altri temi sono quelli del viaggio e dell’esilio.

In questa raccolta si nota quel processo di sintesi che caratterizza, attraverso l’eliminazione di ogni divagazione discorsiva, la poesia di Ungaretti, la quale nell’Allegria appare ridotta davvero ai minimi termini, all’esaltazione della parola pura e nuda, fino a pervenire ad enunciati stringati.

Veglia (L’Allegria)

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Un’intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d’amore

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita

Cima Quattro il 23 dicembre 1915

Fratelli (L’Allegria)

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Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua

fragilità

Fratelli.

Mariano il 15 luglio 1916

Sono una creatura (L’Allegria)

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Come questa pietra del monte San Michele

così fredda

così dura

così prosciugata

così refrattaria

così totalmente

disanimata

Come questa pietra

è il mio pianto

che non si vede

La morte

si sconta

vivendo.

Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916

San Martino del Carso (L’Allegria) (1916)

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Di queste case

non è rimasto

che qualche

brandello di muro

Di tanti

che mi corrispondevano

non è rimasto

neppure tanto

Ma nel cuore

nessuna croce manca

È il mio cuore

il paese più straziato.

Mattina (L’Allegria) (1917)

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M'illumino

d'immenso

Santa Maria la Longa 26 gennaio 1917

Soldati (L’Allegria) (1916)

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Si sta come

d’autunno

sugli alberi

le foglie

SALVATORE QUASIMODO

Alle fronde dei salici

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E come potevano noi cantare

con il piede straniero sopra il cuore,

fra i morti abbandonati nelle piazze

sull’erba dura di ghiaccio, al lamento

d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero

della madre che andava incontro al figlio

crocifisso sul palo del telegrafo?

Alle fronde dei salici, per voto,

anche le nostre cetre erano appese,

oscillavano lievi al triste vento.

Ed è subito sera

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Ognuno sta solo sul cuor della terra

trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera

EUGENIO MONTALE

Meriggiare pallido e assorto

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Meriggiare pallido e assorto

presso un rovente muro d’orto,

ascoltare tra i pruni e gli sterpi

schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe del suolo o su la veccia

spiar le file di rosse formiche

ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano

a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare

lontano di scaglie di mare

m entre si levano tremuli scricchi

di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia

sentire con triste meraviglia

com’è tutta la vita e il suo travaglio

in questo seguitare una muraglia

che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Spesso il male di vivere ho incontrato

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Spesso il male di vivere ho incontrato era il rivo strozzato che gorgoglia era l’incartocciarsi della foglia riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio che schiude la divina Indifferenza: era la statua nella sonnolenza del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.